Quando ho cominciato il mio corso di formazione per diventare un’insegnante di Odaka Yoga c’era una frase che Francesca, mia formatrice e fondatrice della disciplina, mi ripeteva sempre: Lascia Andare
Ed è una frase questa, «Lascia Andare» che puoi sentire spesso quando vai a una lezione di yoga, qualsiasi sia lo stile che hai scelto per te, in questo momento. E devo ammettere che Francesca non è stata l’unica persona a suggerirmi di lasciare andare, spesso, nella mia vita.
Nell’ultimo anno ho sperimentato diversi livelli di ansia (sì, perchè anche se fai yoga da tempo, non sei di certo esente a questo genere di sensazioni). A volte l’ansia mi ha permesso di vivere normalmente, altre volte è stato più difficile. In certi punti, se qualcuno mi avesse detto di “lasciar andare”, posso garantire che più che compassione avrei provato seri istinti omicidi. Niente di personale ovviamente.
Se sei pieno di collera o ansia e qualcuno ti dice che devi lasciare andare, spesso la prima sensazione è quella di sentirsi fraintesi, come se le tue emozioni fossero cose di poco conto e non valesse la pena spenderci tempo, respiro, pensieri.
La verità è che molto spesso ciò che sei oggi non è altro che il risultato di ciò che hai vissuto prima.
Ho sempre avuto la smania di controllare le cose, in modo che tutto andasse come avevo pianificato, con i miei preconcetti, le mie idee. Se mi affezionavo a un’idea, poi quella doveva materializzarsi, un po’ come il coniglio nel cappello del mago, in uno spettacolo di magia. Alla fine quell’idea controllava me e ci rimanevo imbrigliata. Sono rimasta imbrigliata nella stessa idea per buona parte della mia vita.
Spesso non siamo consapevoli di tutte queste idee che vivono dentro di noi, di come di definiscono e, spesso, ci controllano.
Certamente non lo ero. Fino a quando ho incontrato lo yoga e ho capito che le mie idee ed io eravamo due cose diverse. E che, in verità, non mi rappresentavano. Ma proprio per niente.
Come l’ho capito? Con un ascolto profondo.
E magari tu mi dirai che non hai la più pallida idea di come fare ad ascoltarti, anche se sai che effettivamente è l’unica strada percorribile.
L’ascolto profondo è il processo di connessione vera e propria con noi stessi e con la nostra vita. Non è tanto una tecnica specifica quanto un approccio a come riceviamo e rispondiamo a noi stessi e agli altri.
Negli ultimi 5 anni, l’ascolto profondo mi ha aiutato a riprendermi da ferite, malattie e dolore. Mi ha aiutato a capire meglio le mie relazioni stimolanti e ad avvicinarmi alle persone che sono importanti per me.
Praticando e insegnando ho scoperto molte cose di me e della società in cui vivo.
Vale a dire:
La maggior parte di noi è abituata a vivere la vita come una serie di reazioni a ciò che sta succedendo intorno a noi.
La maggior parte di noi si sente stressata e sopraffatta per la maggior parte del tempo.
La maggior parte di noi vive con la tensione nel nostro corpo che sta devastando la nostra salute.
La maggior parte di noi soffre di ansia e non sa perché nasce.
La maggior parte di noi porta in giro potenti narrazioni emotive – le “storie” che ci raccontiamo del nostro dolore non digerito – e non siamo sicuri di come guarire i danni del passato.
La maggior parte di noi non capisce come cambiare le abitudini che ci tengono bloccati.
E la maggior parte di noi non sa come essere gentile e compassionevole con se stesso, condizione che ci permette di evolvere.
Ma la verità è che lo stress non è davvero il problema. Il problema è la risposta a quello stress che, in altre parole, non è nient’altro che lasciar andare.
Negli Yoga Sutra di Patanjali si parla anche di Non-Attaccamento.
Per molto tempo è stato il mio cruccio e il non attaccamento mi sembrava qualcosa di veramente impossibile da realizzare.
Come si può avere compassione ed essere distaccati? Come possiamo prenderci cura degli altri, avere ambizioni ed essere distaccati? Come possiamo avere figli, amanti, motivazioni, carriere ed essere distaccati da tutto questo?
E’ frustrante. Come posso avere abbastanza soldi per mantenere mio figlio e lasciare andare allo stesso tempo, lasciando che le cose accadano da sé, senza rimanere intrappolata in tutto questo?
Credo che la prima cosa da cui partire per iniziare questo processo di ‘lasciare andare’ (che probabilmente durerà tutta la vita), è la consapevolezza che tutto è in movimento. Un movimento continuo. Il mio padrino semplificherebbe in modo forse un po’ cinico che niente è per sempre. E detta così fa un po’ paura perché il cambiamento è, per sua natura, verso qualcosa che non conosciamo, che non possiamo controllare e che quindi ci spaventa. Ma non possiamo mai sapere ciò che è bene o male per noi, in questo momento.
In Odaka Yoga aiutiamo questo processo – quello di lasciare andare – attraverso il flow, attraverso movimenti circolari, assimilabili alle onde del mare, che non hanno né un inizio né una fine.
Così non esiste una posa da raggiungere, un punto d’arrivo, ma un fluire di movimenti costanti che, potenzialmente, potrebbero essere eseguiti senza fine. Il nostro corpo, così, può provare a lasciare andare, senza la frustrazione di dover per forza raggiungere qualcosa. E se il corpo si lascia andare è anche molto più facile che lo faccia la mente. Con questi movimenti raggiungiamo uno stadio in cui corpo e mente sono come ‘sospesi nell’eterno ora’. Con allungamenti e posizioni facciamo spazio nel nostro corpo e spazio nella nostra mente. Fare spazio significa anche ‘lasciare andare’ quello che non ci serve, compresi pensieri, idee, problemi a cui ci siamo aggrappati e che ci controllano.
Questo non significa che dobbiamo eliminare delle ‘cose’, ma lasciare che siano. Questo è l’atteggiamento con cui possiamo fare spazio. Piuttosto che allontanare parti di noi, stiamo creando un ambiente che ci permette semplicemente di allentare la presa. Non dobbiamo sistemare nulla. Tutto quello che stiamo facendo è portare un’attenzione tenera e non giudicante al nostro corpo e fare spazio a tutto ciò che ci vive. È così che inizia il processo di cambiamento: con la consapevolezza che tutto è in movimento e con l’accettazione.
Niente scompare mai
finche’ non ci insegna
quello che dobbiamo sapere.
— Pema Chödrön
Negli Yoga Sutra di Patanjali questo atto ha un nome specifico: Aparigraha. Aparigraha ha molte traduzioni. Nella sua forma più pura, assomiglia al vairagya, la parola sanscrita per distacco e rinuncia. È il cammino che i santi uomini dell’India, i sadhus, prendono quando si lasciano tutte le cose terrene alle spalle e iniziano una vita di austerità.
Non dobbiamo prendere questa strada austera per imparare che le cose che chiamiamo ‘possedimenti’ possono creare follia. Abbiamo solo bisogno di guardare intorno a noi. Siamo una società di “stoccaggio”. Di scatole, armadi, scarpe vecchie che non useremo più, ricordi, relazioni. Cose che non usiamo ma dalle quali non abbiamo la minima intenzione di separarci. Non è che non dovremmo godere di oggetti materiali, ma da qualche parte lungo la strada siamo diventati accaparratori di essi. “Queste cose qui – sono mie”, diciamo, e le mettiamo tutte in una scatola sotto il letto.
Quando abbracciamo l’Aparigraha, diventiamo come l’uccello in erba. Non siamo nati per rimanere aggrappati a un ramo. Siamo nati per volare.
E lo stesso vale per le emozioni, la rabbia, la gioia, la delusione, l’euforia, la tristezza.
Per iniziare a praticare l’Aparigraha dobbiamo lasciar andare parte del bagaglio fisico, emotivo e mentale che abbiamo accumulato nel corso del nostro viaggio. Quella scatola di foto ricoperta di polvere che guardiamo ogni settimana? Possiamo lasciar perdere. Il rapporto che non si sente mai veramente stabile? Anche questo può andare. Le credenze, le opinioni e i giudizi? Anche loro devono essere abbattuti. Quando ci lasciamo andare, cresciamo.
Con il tempo ho capito che la pratica fa davvero qualcosa di miracoloso, indipendentemente dal fatto che si creda o meno in qualcosa. E anche il ‘lasciare andare’ diventa un processo di consapevolezza, anche per chi, come me, vive nell’ansia costante.
Il nostro Sensei, Roberto Milletti, fondatore di Odaka Yoga, ci racconta spesso una parabola sul comportamento delle scimmie che ben si addice a spiegare la capacità di lasciare andare. Ci racconta di anfore ricolme di noccioline, lasciate come esca per catturare i piccoli animali. La scimmia, vorace e alla ricerca di cibo, infila la sua mano nell’anfora, alla ricerca delle noccioline che riesce ad afferrare in un pugno. All’atto di estrarre la mano per mangiare le noccioline, quello stesso arto rimane intrappolato nell’anfora, impedendo alla scimmia di scappare. Potrebbe sfuggire all’esca ed essere libera solo lasciando andare le noccioline. Trattenerle, invece, le impedisce di avere spazio per sfilare il braccio dall’anfora ed essere libera. Così, la scimmia, vorace e incapace di lasciare andare le noccioline, viene presto catturata.
Ecco il concetto, semplice, ma essenziale: trattenere rende prigionieri, lasciare andare rende liberi.